Il Cerchio

Era tutta ombra la caverna. Ne percepivo appena i contorni. Strano quel fosso! – pensai. Poi guardai verso l’alto, mi sentivo umido e schiacciato. No, non ricordo bene l’inizio della storia, ma mi ricordo come stavo. E me ne stavo disteso nella concavità della roccia. Così per gioco, forse per nascondermi, forse perché quello era tutto il mondo. Ed era mio, anche se era solo una pozzanghera. Una mattina, mi svegliò uno strano prurito, e mi ritrovai a far segni per terra. Un’ombra s’era fatta netta, e proiettava una linea sulla sabbia, presi a ricalcarla come potevo. Ma ora che ricordo meglio, non era una mattina, era la mattina, perché prima quella luce non c’era mai stata, quell’ombra nera non c’era mai stata. Giorno dopo giorno tutto diventò più intenso, più spesso e più squamoso. Ma la cosa sorprendente è che da quel momento in poi cominciai a disegnare. Insomma, dopo un po’, non pensai più a dove ero, ma iniziai a pensare a dove sarei potuto essere, all’altrove, anche se per me l’altrove era sempre stato lì dentro.

Questo nuovo modo di esserci mi piaceva, questa attività, questo … questo fare stava diventando un vizio. Fin quando un giorno venne fuori quella figura lì. Eh bello! – direste voi oggi – ma il solo ricordo mi fa tutt’ora tremare. All’inizio mi venivano solo linee, partivo da un punto e tracciavo sulla sabbia segni veloci, linee spezzate, e mi divertivo, quanto mi divertivo. Una volta addirittura vennero fuori tre linee spezzate, una verso l’alto, l’altra tutta sgangherata finiva con tre punti, e l’altra dritta dritta scendeva verso il basso, che ridere. Insomma, con queste pazze linee mi ci trovavo. Poi presi a farne alcune che curvano un poco. Sinuose? sì, ma sinistre e inquietanti. Cioè, mi sentivo attratto da queste curve, ma m’intimorivano a morte. Alla fine, dopo tanto fare e rifare, lo tracciai, ecco. E quando avvenne credo di aver strillato così forte che per la prima volta sentii la mia voce. Echeggiava in quell’antro buio. Insomma, avevo scoperto in un sol punto chi ero, dov’ero, e come mi muovevo.

Ero il cerchio. Il fosso. E la caverna.

Punto. Fine della storia. Cosa volete che possa aggiungere ancora. Piansi per settimane. Ero un cerchio, un dannato cerchio! Un giorno, non so se fu per via di un sogno, o cosa, ma ebbi un’idea – un’idea così ovvia direste voi oggi – ma vedete ai tempi ero tardo e piagnucolone. Sognai di fuggire. La luce che arrivava durante il giorno non si trovava sempre nello stesso punto. Ma di sicuro non si trovava lì dentro, era fuori, e io l’avrei seguita. Così una notte feci finta di dormire, mi rigiravo nella calda concavità come una ciambella, e sognavo, sognavo … sognavo non so bene cosa, ma la luce mi prometteva una libertà infinita. Ecco che dopo una ricerca estenuante, trovai finalmente il punto da cui uscire. Avevo mappato tutto, tracciato sulla sabbia ogni cosa, le mie belle figure m’avevano permesso di orientarmi, ormai conoscevo bene la caverna, sapevo dove e come spostarmi, e quindi sapevo anche come uscirne.

La resistenza della caverna era insuperabile, ma dopo uno sforzo immane, simile a un salto, a una spinta, a un’esplosione, riuscii a mettermi fuori. Ero libero!

Uscii. E fui subito abbagliato. Ero fuori, fuori. Cominciai a sgranchirmi, a stiracchiarmi, e poi a danzare, cantare, roteare, ondeggiare. Ero dall’altra parte! Oh la meraviglia del nuovo mondo! Eh già! Ma durò pochi istanti. Cominciai subito a sentire un freddo che non avevo mai provato prima, ero libero sì, mi ero espanso velocemente come un bel palloncino, ma poi sono esploso, e mi sono perso. Ero ovunque lì intorno. Mi trovavo dappertutto, avevo pezzi sparsi qua e là. Afferravo una gamba e volava via un orecchio, acciuffavo un piede e non sentivo più il collo, un sopracciglio poi volò così lontano, che non lo vidi più per mesi. Sì, per la prima volta m’ero pensato uomo. Ma fu un istante, poi lo dimenticai. Cominciai a tremare, non resistevo, insomma ero troppo debole. Ero dovunque e nessuno. Ripensai all’antro tiepido che ero sempre stato e che mi aveva accudito da sempre. Mi ripiegai su me stesso e tornai laggiù, dentro la mia caverna buia. Fu un abbraccio dolcissimo e sensuale. “Ah non ci separeremo mai più” le dissi, a chi? A quei tempi ancora non lo sapevo bene. Ma avevo già intuito che non avrei mai mantenuto quella promessa.

Le mie escursioni furono numerose. Man mano cominciai a tastare per bene anche il terreno là fuori, sapevo dove andare, e non era necessario tracciare la sabbia come nella caverna, lì fuori un albero era albero, disegnarlo per ricordarmi che si trovava lì era superfluo. Lui esisteva. E sapevo che alla sua destra c’era quella cosa fluida, che voi oggi chiamate acqua, ma per me rimarrà sempre la sua carezza prima di addormentarmi. Anche in quel mondo non ero solo, ma gli altri erano ostili, si muovevano insieme a me, erano grossi, veloci, e molto pericolosi. Avevano zanne lunghissime, artigli affilati e pesanti pellicce. Io ero un verme.

Comincia a imitarli. Mi travestivo con la loro pelle. Ci uccidevamo a vicenda. La vita a quei tempi era una corsa continua.

***

Poi un giorno, mi avvicinai a uno stagno, vidi emergere una figura che aveva due grossi rigonfiamenti sul petto e un grande ventre rotondo, mi avvicinai ancora, mi sfiorai il viso, era il mio riflesso. Sorrisi come quando quel succo dolce sorprende la mia lingua. “È lei!” – pensai, s’era mimetizzata, anche lei era fuggita via dalla caverna e io non me ne ero mai accorto. Ammetto che è sempre stata molto, molto più intelligente di me, ma non avrei mai immaginato fino a quel punto. Si era nascosta bene, ma adesso, adesso la vedevo vedendomi. E mentre mi accarezzavo il grembo pieno come una luna, sentivo che il nostro amore era invincibile. Se lei non fosse uscita con me, io non ce l’avrei mai fatta qui fuori. Lei ha sempre saputo che io volevo, ma non ha mai detto una parola.

Da quel momento in poi cominciai a costruirmi delle capanne, cominciai a crearmi dei recipienti in cui conservare gli avanzi, mi affaticavo meno, e la sera mi godevo la bellezza di quei vasi sul mio davanzale. I profumi che contenevano mi facevano sognare l’altrove, anche se l’altrove era già lì. Insomma lei aveva reso migliore quella sopravvivenza, l’aveva protetta e allungata. Cominciai a far cose che prima non avevo mai fatto. E quando fummo in molti, e ci riconoscevamo, tra di noi si instaurò una grande amicizia. Fondamentalmente ci distinguevamo per due cose. E ognuno di noi sapeva farle molto bene.

Io da parte mia non persi mai la passione per il disegno, la perfezionai. Avevo esplorato terre lontane e ne avevo tracciato i confini. Avevo tante mappe, guidavo molte tribù, ma soprattutto ero forte e robusto, e nessuno fino a quel momento era riuscito a battermi. Pensai di fare un po’ di ordine, eravamo tanti ormai, era necessario avere dei nomi. Li stabilii in base alle parentele, per una questione di praticità. Un giorno mi ritrovai sotto mano una tavoletta su cui avevo tracciato i nomi di tutti, oggi direste che avevo creato il primo albero genealogico, per me quella era la mia gente. Avevamo calendari, sapevamo non solo orientarci con le stelle, ma anche in che modo tramandare i racconti dello zio Bob che era un gran chiacchierone, e nonostante fosse cieco aveva visto una terra rigogliosa al di là dei monti, in cui sognavamo di stanziarci un giorno, per creare una splendida civiltà. Le prove da affrontare durante il cammino erano molte e pericolose, ed era proprio per questo motivo che le sue storie erano necessarie.

Alla fine ci arrivammo laggiù. La nostra terra promessa era commovente, la bellezza era commovente. Cominciammo a volerle così bene, così come si vuol bene a una donna, così tanto da farci l’amore, così tanto da immergerci in lei, fino a sentirne le misteriose profondità, fin quando un giorno le nostre ombre si stagliarono lunghissime sul suolo, e ci scoprimmo giganti: eravamo diventati contadini. Qualcosa della caverna e del cerchio in noi rimase sempre uguale. Seguivamo la ruota dell’anno, le sue stagioni, i suoi umori, i solstizi, gli equinozi, e spesso mi tornava in mente l’ombra dell’antro su cui tracciavo con nude dita un percorso che allora mi sembrava breve, e che oggi scopro mastodontico.

Quegli anni lì furono sereni. Tutto era in pace. Tutto scorreva dolcemente.

Poi una notte, mentre dormivamo nelle nostre belle capanne di legno, sentimmo la terra tremare, non avevamo fatto in tempo a svegliarci che fummo travolti dalle fiamme. Un’orda di uomini a cavallo aveva devastato il nostro villaggio e fatto scempio d’ogni cosa. Non sapevo che da lì a poco, l’avrei persa per molti lunghi anni, forse secoli. Quegli uomini, erano diversi da noi. Avevano barbe incolte e abiti consunti. Barbari direste voi, eppure qualcosa cambiò, e cambiò dentro di noi, cambiò per tutti.

***

Guardavo il mare attraverso la feritoia, ripensavo ai suoi occhi. Mi muovevo fiaccamente dentro quella cella polverosa, riponevo meccanicamente le pergamene all’interno di un cilindro di pietra, ce ne erano molti, alcuni vuoti. Non ricordavo più il suo nome, mi mancava. Mi mancava non so cosa, ma mi mancava. Il calcolo del raccolto e i tributi dei cittadini riempivano i fogli e i miei giorni. Ai margini tracciavo segni storpi, parole che alludevano ai suoi nomi. Volevo ricordarla, trattenerla, lei continuava ad essere il faro di tutta l’esistenza. Ma tutti l’avevano dimenticata.

***

Da lì a poco, ero diventato imperatore. Avevo viaggiato a lungo, volevo conoscere ogni regione, vedere con i miei occhi le innumerevoli e affascinanti differenze dei popoli. Mi ammaliavano le lingue, ne imparavo di nuove con grande velocità. Scoprii lì che, le civiltà si fondavano sugli idiomi ancor prima che sui confini. Mi scoprii giorno dopo giorno, secolo dopo secolo sempre più invincibile, sempre più grande. Avevo imparato che in battaglia la tregua si tramuta in giusta misura. I commerci e le vie comunicazione erano diventate sempre più agevoli, contribuivo a pianificare un sistema ordinato e sempre più complesso. Una sera, al tramonto, ero salito in cima al vulcano. L’aria torrida mi bruciava la pelle. Fui attratto, volevo ammirarne la bocca infuocata. Restai immobile ad osservare quella fornace. Quel fosso rotondo mi sgomentava, eppure, eppure sentivo di esser profondamente legato a quell’oscura natura. Non so di preciso cosa accadde in quel momento, erano ricordi confusi, ma da quel giorno, io, diventai un tiranno.

***

La rocca nera da dove regnavo era spaventosa. Il mio castello era tra i più inespugnabili del mondo. Avevo vassalli sparsi su tutte le contee. Non pensai più ai molti che ero stato, pensavo solo a me stesso, ad accrescere il mio dominio. La scienza era un modo per avere ancora più potere e volli appropriarmene. Mi circondai dei migliori studiosi, volevo conoscere ogni cosa. Volevo, volevo tutto. E lei mi parlava di sciocchezze, credenze infauste, sogni inutili, canti senza senso. Forse voleva distrarmi, sottrarmi il potere, mi infastidiva, così la rinchiusi nella torre più alta. La misi a tacere. E fu lì dentro per secoli. Il mio unico obiettivo era il mondo.

***

“Sapete quanti colori ha il mare?” – dicevo al buio della mia prigione – “le innumerevoli sfumature del suo orizzonte al tramonto?”. La mia voce echeggiava lì intorno, la camera circolare la faceva vibrare nel tempo. Da quest’alta torre vedevo espandersi tutto il regno. Immense foreste, altipiani selvaggi e incontaminati. La mia lunga veste viola non frusciava più dietro i miei pochi passi, l’avevo ridotta a brani. Scrivevo messaggi per l’altrove. All’alba annodavo quei nastri alle zampe del falco che attendevo al davanzale. Seppi che un drago cinereo e squamoso s’ingigantiva nelle segrete, il re lo teneva in catene come me, ma non sapeva ancora che presto ne sarebbe stato divorato.

***

Qualcuno tra noi non capiva quanto lei fosse pericolosa per la nostra sopravvivenza. Il dio era uomo, noi ci battevamo per il suo dominio, per il nostro. Lei voleva scompaginare ogni cosa. Lei era astuta, conosceva l’arte del travestimento e ricompariva continuamente sotto mentite spoglie. Alcuni la incontrarono per le strade, qualcun altro la intravide su alte finestre, altri ancora ne sentirono solo parlare. Agli angoli delle strade i trovatori cantavano le gesta di colui che l’aveva cercata, e che attraverso di lei aveva conosciuto la via della vita eterna. Continuavo a ripetermi che era solo poesia, buona solo per intrattenerci dopo il duro lavoro del giorno. Non era niente, non poteva nuocere al nostro stato. Ma una mattina mentre cavalcavo per far ritorno al mio paese, fui attratto da un canto nei boschi. Credevo di conoscerlo già. Mi inoltrai nel folto, vidi una cerva bianca. Brillava di luce propria. La inseguii ma la persi di vista. Mi disperai. La cercai per giorni. Alla fine la ritrovai sotto un albero. Lei mi chiamava. Da quel giorno la sognai tutte le notti … c’ero cascato di nuovo! m’ero fatto cavaliere errante.

***

Ero il capitano di un imponente galeone. I miei capelli sapevano di legni e scorze, il mio seno roseo era fasciato e nascosto sotto abiti stringati. Fui piratessa, la più bella e la più temuta in tutto l’oceano. Sapevo già che il nuovo mondo era lì a un passo. L’occhio del mio cannocchiale indovinava le isole da vertiginose distanze, ma era il vento a sussurrarmi la via, anche quando essa sembrava impossibile; una voce dentro me mi diceva che la ricerca dell’altrove era un mistero. Una volta una procella ci schiantò su una terra nera e disabitata. Quello che trovai non posso dirlo, ma da quel giorno cominciai a figurarmi una mappa del tesoro, ne vedevo in sogno i dettagli, le indicazioni, e così alla fine la segnai sulle carte. Non so se fu un’ardita impostura o un gioco, ma quella storia mi divertiva. Già allora sapevo che la ricerca non avrebbe mai avuto fine. E che quella mappa ci avrebbe condotto lontano.

***

Tea si muoveva sinuosa tra le ampolle, il suo corpicino aveva un’eleganza e una precisione straordinaria. Mi sorprendeva il suo innato equilibrio. “Crack” la sedia su cui sedevo in quell’istante si ruppe, lei smise di leccarsi e io imprecai in lingue morte che nessuno conosceva più! mi osservò inclinando il muso, mi fece sentire un idiota. Per la prima volta quel giorno, dopo mesi, mi guardai allo specchio. La barba incolta aveva nascosto il mio viso. “Non so più chi sono. Ma ho visto chi sarò” continuavo a ripetermi sottovoce, tra il borbottio degli alambicchi sul tavolo. Continuai ad incidere sui muri nuove formule. Qualcosa mi diceva che ero in errore, e tuttavia ero convinto che era necessario scoprirlo in quel modo, smascherare l’errore, smascherarmi.

***

Il riflettore sul palco illuminava la mia figura. Ogni volta che il mio mento tratteneva la viola, il mio viso si contraeva. Il mio corpo si rimpiccioliva. Ero risucchiata all’interno di quello strumento così fragile e così inutile. Durante l’esecuzione mi sono sentita invisibile, tutto attorno a me scompariva. Ero ovunque. Stavo toccando il fondo. Tu lo sapevi, e forse per questo quella volta hai pianto, notai brillare i tuoi occhi tra il pubblico. Non terminai mai il mio primo concerto, il soffitto del teatro venne giù, devastato dall’assalto improvviso. I bombardamenti continuarono per mesi. Niente più seppi di te.

***

Dal dal finestrino del mio aeroplano vedo l’intera città, ed è come se la sentissi mia. Non mi macchio più di crimini feroci, mi limito a piegare le loro menti per i miei scopi, per controllarne le vite, i bisogni, i desideri. Sono diventato bravo. Sono diventato l’incarnazione della modernità. Controllo la terra, i mari e i cieli, e presto dominerò tutto l’universo, il primo passo è stato quel bieco satellite che ho infilzato con il mio stendardo. Sì, lo detesto tanto perché mi ricorda lei, colei che non voglio più incontrare. No, non c’è tempo per dormire, per sognarla. Sono sempre stato un grande esploratore, fin dal primo giorno in cui uscii dalla caverna. Volevo vivere e muovermi continuamente, e guarda dove sono arrivato. Sono pura attività. Sono il progresso.

***

Sei il tuo trionfo e la tua catastrofe. Ricorda, sei sempre esploso e sempre t’ho lasciato libero. Adesso è arrivato il tempo di invertire le direzioni. La via dell’altrove ha una forma che conosci molto bene, e ti spaventa. Per annientarla hai prosciugato le fiabe, ostruito i canali d’irrigazione e reso putrida l’aria. Hai macchiato i mari per non specchiarti, estirpato le foreste per non udirti, profanato le gole per non saperti: tu agisci senza di te, senza di me. È vero, il tuo slancio ha illuminato il nostro viaggio, ma tu continui a smarrirti e a svuotarti. Trovami, e cammineremo ancora insieme, un nobile duello sigilla il nostro amore. Trovami, prima che sia troppo tardi, prima che tu scompaia nell’aria vuota. Ascoltami. Apriti. Riconoscimi. Non negarti la via. Oggi è questa la tua nuova battaglia.

***

Ho imparato tanto, ma sono ancora molto impreciso. In certe occasioni uso ancora la penna e un foglio di carta, non so perché lo faccio, forse mi piace pensare d’esser libero di venir sorpreso ovunque io mi trovi, da chi? da lei si capisce, l’ispirazione ama la mia libertà. I dispositivi elettronici non riescono a captare le onde che gravitano su di me, ma la mia vecchia penna, come un’antenna o una bacchetta ci riesce ancora bene, nonostante tutto. Dare ascolto a più cose mi ha reso migliore, ma è sempre lei che cerco, arso dal misterioso desiderio senza nome. Forse sono meno ingenuo del cavaliere d’un tempo, ma oggi faccio fatica a star sveglio. Lui invece viveva già nel sogno… eh già, e adesso come potrei ricordarmene? se non scrivendolo?

***

Mi fingo te e sono te. Ma fingere è il gioco dell’esistenza. E ora lo comprendo meglio. Le costellazioni ruotano in cielo, e io sono molteplice e uno. Io e te siamo uno. E siamo tanti, innumerevoli noi. Un tempo rientravo nella caverna perché ero spaventato, per secoli la paura ha dominato il mio esistere. Ma oggi, ritorno per conoscerla meglio, per amarla, vederla in me, come lei vede me in se stessa, la mia caverna, il mio buco, il mio cerchio, la mia ombra, l’altra metà di me stesso.

Graziana Garofalo

All.Rights.Reserved©

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *